Dopo anni di sofferto silenzio, prendo penna e calamaio, metto nero su bianco, nella speranza che gli argomenti da me trattati servano a qualcuno e a qualcosa, a beneficio di tutti, cittadini comuni divenuti facili bersagli e vittime di ritorsioni e vendette a causa di una Giustizia malata, costellata di lotte intestine, di interessi privati in atti di Ufficio, di corsa alle carriere facili, e così via.

L’oggetto che tratto è, appunto, sulla Giustizia, quella scritta con la G maiuscola. Intanto, non condivido il pensiero di molti, largamente diffuso, emerso nell’acceso dibattito di questi ultimi tempi, e cioè che la paventata riforma della Giustizia, della quale tanto si parla, sia concepita ad personam e, come tale, da respingere in quanto vìola principi generali largamente riconosciuti, primo fra tutti quello dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Per la verità, il punto merita una prima attenta osservazione, da parte di chi, uomo qualunque, ha subìto e patìto gravi ingiustizie, proprio in nome della Legge, di quella legge uguale per tutti.

La riforma della Giustizia serve, prima di tutto, a difesa dei cittadini, quelli comuni che rappresentano il popolo d’Italia, quelli buoni, e sono la generalità,  che vivono (o stentano di vivere!)  in ogni angolo della nostra terra: ogni giorno lavorando duro, con la fronte grondante di sudore, quelli che vengono sottoposti a soprusi e abusi perpetrati in nome della Legge, quei cittadini comuni che non hanno capacità economica per potersi e sapersi difendere (come altri fanno!), che sono rassegnati a sopportare, e quotidianamente sopportano, ingiustizie di ogni genere, e patiscono la fame per indigenza economica, e soffrono la galera per reati mai commessi. Quei cittadini comuni obbligati a scegliere la strada del crimine solo per disperazione, perché indigenti od anche perché stremati da comportamenti abusivi e persecutori, spesso vessatori, da parte della Legge e di chi, sul territorio, la Legge rappresenta.

Sono convinto, e per questo con veemenza scrivo, che la riforma della Giustizia serva, e sia necessaria ora più che mai, e subito, senza tentennamenti, non per cacciare dai guai qualcuno, quel qualcuno che non lesina occasione per mettersi nei guai,  quel qualcuno che, al limite del pudore, ogni giorno ostenta ricchezza, opulenza, e sperpera ricchezza.

La riforma della Giustizia serve per un motivo decisamente semplice, elementare, più forte e nobile di quanto si possa credere, o semplicemente pensare, ed è quello di tutelare, da azioni persecutorie non degne di uno Stato di diritto, tutti noi, persone comuni e semplici, che viviamo all’ombra, sopravviviamo a stento, alla giornata, nel silenzio, che siamo presenti nei luoghi più disperati d’Italia, ignorati e dimenticati dalla grande stampa, quest’ultima dominata da altri interessi, rampante in altri settori dello scibile, lontana dai grandi ideali e nobili principi a difesa del bene comune.

Ho tratto convincimento che i dibattiti a cui siamo abituati ad assistere, nelle principali trasmissioni televisive di ogni sera, siano effettivamente strumentali ad uno scopo, rivolti al fine di cambiare o sovvertire, con l’arma giudiziaria, equilibri politici democraticamente conseguiti. Il fatto, questo fatto, per sua natura è odioso: e, alla fine, il risultato è sotto gli occhi di tutti: il vero problema, sentito dal Popolo, quello di avere una Giustizia per tutti Giusta, con le G maiuscole, viene trascurato e abbandonato: sommerso dal fango quotidiano della menzogna e dell’arbitrio a tutti i costi. Costi quel che costi!

Quanto per entrare nel tema, vale la pena riportare, ora per allora, il contenuto di una mia accorata lettera inviata al Prefetto della provincia di Reggio Calabria e, per conoscenza, fatta pervenire al Ministro della Giustizia del tempo, in data 02.09.1994, a margine della sassaiola contro due Carabinieri di Platì, piccolo Comune dell’entroterra aspromontano.

Eccellenza,

ho seguito, in televisione, la sua visita nel Comune di Platì, ed ho ascoltato le sue parole in ordine ai fatti, senza dubbio incresciosi, che hanno visto coinvolti due Carabinieri e alcuni abitanti di quel centro, durante le fasi di arresto di un pregiudicato latitante.

E’ fuor di dubbio che episodi di quel genere appaiono inverosimili agli occhi del resto del Paese, ma sono il segno, allarmante, di una tensione allo stato latente, e di una cultura, o mentalità retrograda, ignorante, della quale bisogna vergognarsi, e liberarsi, ma con la quale, ahimè, bisogna fare i conti. Come calabrese, di avvenimenti come questi, diretti contro le forze dell’ordine, me ne debbo vergognare. E me ne i vergogno! Punto.

Per esperienza vissuta mi si consenta, però, di non unirmi al coro di condanna, sic et simpliciter.

Alla condanna, pura e semplice, e di solidarietà verso l’Arma veramente benemerita in un territorio veramente difficile, irto di pericoli, debbo aggiungere qualche legittima mia riserva. Ed è questa:

Alla base di quella tensione, e di quella inconsulta reazione, chissà  quante siano state, e continuano ad esserlo, le ingiustizie patite da quella gente, e quanti i torti e  soprusi sopportati con rassegnazione, primo fra tutti lo stato di precarietà sociale e di abbandono culturale : in quei luoghi, a volte, si vive come le bestie! Anzi, peggio delle bestie!

Voglio credere che i giovani di Platì, non a caso, vedano nell’Arma il nemico con cui confrontarsi ogni giorno, come in guerra. Voglio credere che ci sarà un motivo, ed una spiegazione, che attenua, ma assolutamente non giustifica, la responsabilità degli autori di quel grave gesto. Il professore Arlacchi, ancora prima di sentenziare, per come nella circostanza ha pubblicamente sentenziato, farebbe bene a studiare le cause vere, che stanno alla base di questo triste fenomeno da comprendere, e da combattere ovviamente : primo fra tutti l’ignoranza avica e atavica! E lo scrittore Giorgio Bocca, farebbe altrettanto bene ad entrare nel merito, dal punto di vista sociologico, di questa ribellione nei confronti di chi rappresenta la Legge, e la legalità di uno Stato colabrodo, che fa acqua da tutte le parti.

Capiremmo allora che inverosimili, agli occhi del resto del paese, risultano essere non solo i fatti testè narrati ed esaltati dalla grande stampa, ma anche quelli ignorati, e dimenticati, quasi non percepiti, costellati di atti persecutori e vessatori, a danno della gente buona di Calabria.

Ma, signor Prefetto, quale legge e quale legalità! Se ogni giorno se ne fa un uso spietato e molto spesso scellerato?!

Se non avessi nel sangue il dono della generosità, e quello della bontà, e mi scuso per l’immodestia a volte pure necessaria, sarei dovuto diventare, per le ingiustizie patite, un comune incallito delinquente.

Signor Prefetto, non mi dò pace, e non riesco a rendermi conto sulle cose che mi sono capitate, e delle quali Ella è a conoscenza, per averLa, passo dopo passo, tenuta informata. Non mi rendo conto come le autorità di questo Stato democratico e civile, di millenaria antichissima civiltà e memoria, possano e riescano , così tanto, a mistificare la verità, e renderla inestricabile con montagne di carte formato fotocopie, ed inventare ipotesi per costruire tesi, e renderle più o meno verosimili, e sostenere impianti accusatori che, molto spesso, sanno dell’incredibile.

Tutto perché spinti dalla voglia della rivalsa, o della vendetta,  o da quella di fare carriera,  e non certo dal desiderio di fare rispettare, giustamente, le leggi e le regole di uno Stato di diritto, libero e democratico, per la conquista del quale sono stati versati, in ogni angolo della terra, fiumi di sangue.

Nella qualità di sindaco di un piccolo e dimenticato comune della Calabria mi sono azzardato , negli anni passati, ad alzare la voce, e dire i motivi di una decadenza e le cause della cosiddetta delinquenza minorile, che trova il suo covo, o la sua culla, nei centri di campagna, o di montagna, e che sfocia al momento debito nelle grandi metropoli, come un incendio facilmente divampa nella foresta abbandonata.

Ho denunziato a Prefetti della Provincia e a Procuratori della Repubblica la inefficienza degli Uffici pubblici ed ho contestato l’assenteismo facile, ho denunziato lassismi e permessivismi, usi e abusi a danno della gente di campagna, obbligata a sopportare  le prevaricazioni e le persecuzioni, le intimidazioni e le selvagge perquisizioni domiciliari, ho detto che il territorio del mio piccolo paese era stato occupato dalle vacche sacre, simbolo della prepotenza mafiosa, ho detto anche che la stazione carabinieri del mio piccolo paese, in un’epoca caratterizzata da una feroce faida, quella di Cittanova, era in tutt’altre faccende affacendata, mentre sul territorio avvenivano delitti, si mietevano morti e non si scoprivano i colpevoli. Tutto questo ho detto, ed altro ho osato dire. A tempo debito ho ricevuto, e continuo ad avere, i riscontri e le risposte. Il benservito! Sto pagando il conto  per essermi consentito tutto questo, e per avere sottratto, a lor signori, un poco di tempo, obbligandoli alla lettura della mia corrispondenza fitta e tenace, quasi assillante, c.d. maniacale e disperata! Sono andato oltre, e sto pagando un prezzo. E’ vero. Ma non mi arrendo, e insisto e difendo le mie idee, e il mio programma, nonostante tutto.

Non voglio che la gente del mio paese un giorno possa vedere nelle forze dell’ordine il nemico da abbattere, e da contestare, o da insultare .

Voglio che la gente del mio paese creda nella Giustizia di uno Stato di diritto, come credo io nonostante tutto, a fatica, con grande sforzo, ma con molta speranza ed impegno civico. E non possa trovare spazio quel potere occulto e alternativo, fatto di arroganza e di prepotenza, di sangue e di violenza, che sta dietro l’angolo, che è la mafia!

Entro nel vivo della questione e riporto alcuni fatti e circostanze che, a prima vista, possono sembrare di interesse personale, ovvero strettamente privati. Se così fosse non esiterei un istante dal tediarvi, convinto, come sono fermamente, che i panni sporchi si lavano in famiglia e che non debbano essere portati fuori, e renderli di pubblico dominio. I fatti dei quali è mio intendimento parlarvi, scrivendo questo libro, interessano tutti i comuni mortali di questo paese, dal più povero al più ricco. Con una differenza, che il più forte ha mezzi e soldi per difendersi, e ritorna a galla. Il povero è destinato a soccombere, e soccombe, e muore, proprio perché non ha  mezzi e non ha soldi per difendersi.

 

MAI ATTACCARE I POTENTI, MEGLIO PRENDERRSELA CON I DEBOLI

Prima di immergermi nei  fatti che mi riguardano, ma che riguardano tutti i malcapitati della giustizia malata, appare utile, nel contesto di quanto appena detto,  richiamare alla nostra memoria un articolo di Francesco Alberoni, pubblicato nella rubrica, Pubblico e Privato del Corriere della Sera, tanti anni or sono. Il titolo è quanto mai significativo, attuale come oggi: Mai attaccare i potenti, meglio prendersela con i deboli.

“ Una delle cose più ripugnanti alla coscienza morale è la persecuzione dei deboli, l’aggressione di coloro che non sanno difendersi. Perchè contrasta con la più elementare regola di equità, perché offende chi si sente veramente forte. A noi tutti viene naturale aiutare un bambino piccolo che sta per cadere, proteggerlo se lo vediamo in pericolo. Eppure c’è, nel fondo dell’animo umano anche la tendenza contraria, sempre pronta a risvegliarsi. La vediamo apparire spontanea  nei ragazzi quando scelgono, nel loro gruppo, qualcuno da tormentare.Di solito, chi ha qualche difetto, chi è fragile, indifeso, lo punzecchiano, lo deridono, si divertono nel vederlo annaspare.E’ forse questa la reazione più antica, primordiale, appresa nella dura lotta per l’esistenza, in cui i deboli erano condannati e la società stessa si sbarazzava di loro, per esempio uccidendo i bambini malaticci e i vecchi.

Ed è pronta a risvegliarsi anche adesso, ogni momento, nelle nostre società civilizzate, nei nostri animi perbene, quando si crea tensione, scarsità, paura. Come quando la gente grida “al fuoco” in un teatro e tutti si accalcano alle uscite e calpestano coloro che cadono. Ma anche in situazioni meno pericolose . Prendiamo, come esempio, la trasmissione televisiva   di Maurizio Costanzo, forse la tribuna più aperta, dove tutti hanno la possibilità di presentarsi e di dire ciò che pensano. In cui, però, le persone sono di solito piene di tensione perché vogliono mettersi in mostra  e sanno che Costanzo le stimola, le provoca, ma sta a vedere come se la cavano. In questa situazione molto spesso  i partecipanti cercano istintivamente di trovare un personaggio debole su cui scaricare l’aggressività e la derisione, su cui infierire per apparire superiori.

Nelle città greche, quando c’era una qualche calamità o una pestilenza, quando la tensione cresceva oltre misura, prendevano un poveraccio e lo uccidevano. Lo chiamavano Pharmakos, da cui farmaco, medicina.

Ma non perchè lo ritenessero responsabile della sciagura. Anzi, gli erano riconoscenti per il beneficio che apportava a tutti con il suo sacrificio. Siamo molto più ipocriti e malvagi  noi moderni quando scegliamo un capro espiatorio. Noi vogliamo qualcuno da potere accusare, a cui attribuire la colpa. E non gli siamo riconoscenti dopo averlo massacrato, anzi diciamo che gli sta bene, che abbiamo fatto giustizia.

Sono processi che vediamo abitualmente in famiglia. Tutti se la prendono con chi è meno aggressivo, con chi non sa difendersi. Lo stesso nelle imprese. C’è sempre un funzionario bistrattato, a cui si danno gli incarichi più sgradevoli e si attribuiscono gli insuccessi.

Ma anche nella società tutt’intera c’è sempre qualcuno che viene preso di mira in modo particolare. Il sordo rancore che serpeggia verso chi ha successo, esplode non appena a questo disgraziato succede un inconveniente anche lieve, non appena inciampa. Pensate a Tortora, alcuni anni fa, o a Celentano, o oggi alla povera Sandra Milo. Sempre, comunque, uno debole, ferito. Non viene mai attaccato un potente, mai. E l’attacco diventa feroce solo verso le persone incapaci di difendersi. C’è molta viltà, in questo, accanto all’antico gusto di vedere il debole soffrire.

Come è più nobile lo sport, anche lo sport più violento come il pugilato. Perchè i combattenti devono avere lo stesso peso e pressappoco le stesse capacità. E l’arbitro interviene quando si accorge che uno dei due  non può più esistere ed è in pericolo”.

 

Seguirà seconda puntata

Vito Tramontana